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AMATRICE - DOPO IL VENTO, UN TERREMOTO

28 agosto, 2016



Dopo la tragedia di Amatrice, ho ricevuto un commento fato dall´Economista Luigino Bruni, Economista e storico del pensiero economico, con interessi in filosofia e teologia, personaggio di rilievo dell'economia di comunione e dell'economia civile.[1] Editorialista di Avvenire, è ordinario di economia politica alla LUMSA dopo aver ricoperto fino al 2012 il ruolo di professore associato all'Università di Milano-Bicocca.
Insieme a Stefano Zamagni, è promotore e cofondatore della SEC - Scuola di Economia Civile (www.scuoladieconomiacivile.it).
La sua visione sulla tragedia accaduta in Italia è al tempo stesso realista e confortante, anche per me, per esempio, che  sono  nata  in  una  regione  che   periodicamente,  come  ora, è  assolata  dalla  siccità  che attinge in modo speciale la popolazione impoverita all´interno del Nord Est brasiliano. 
Ecco il testo di Luigino Bruni:


“Dopo  il  vento, un  terremoto, ma  il  Signore non era nel terremoto” .(1 Re, 19).


Quel campanile della chiesa di Amatrice che segna le 3.36, è un’immagine forte per dire che cosa è accaduto questa notte. Quel minuto è stato l’ultimo minuto per le tante vittime, sarà un minuto ricordato per sempre perché inciso nella carne e nel cuore dei loro famigliari, e sarà ricordato dal nostro Paese, la cui storia recente è anche una serie di orologi fermati per sempre dalla violenza degli uomini o da quella della terra.


Anch’io lo ricorderò per sempre, perché questo urlo della terra ha raggiunto anche la casa dei miei genitori di Roccafluvione, a una ventina di km da Arquata del Tronto, dove mi trovavo per visitarli. Una lunga notte di paura, di dolore, di pensieri per Amatrice, Arquata, Accumuli, paesi della mia infanzia, vicino ai paesi dei miei nonni, borghi dove nelle estati accompagnavo mio padre che lì lavorava come venditore ambulante di polli. E poi ancora pensieri, pensieri che non facciamo mai, perché si possono fare solo nelle notti tremende.


Pensavo che quel tempo misurato fino alle 3.36 dall’orologio del campanile, che era lì bloccato, morto, era solo una dimensione del tempo, quella che i greci chiamavano kronos, ma che era solo la superficie, il suolo del tempo. Nel mondo c’è il nostro tempo gestito, addomesticato, costruito, usato per vivere. Ma al di sotto c’è un altro tempo: è il tempo della terra. Questo tempo non-umano, a volte dis-umano, comanda il tempo degli uomini, delle mamme, dei bambini.


E pensavo che non siamo noi i padroni di questo tempo altro, più profondo, abissale, primitivo, che non segue il nostro passo, a volte è contro i passi di chi gli cammina sopra. 

E quando queste notti tremende avvertiamo quel tempo diverso sul quale noi camminiamo e costruiamo la nostra casa, nasce tutta nuova la certezza di essere ‘erba del campo’, bagnata e nutrita dal cielo, ma anche inghiottita dalla terra.



La terra, quella vera e non quella romantica e ingenua delle ideologie, è assieme madre e matrigna. L’humus genera l’homo ma lo fa anche tornare polvere, a volte bene e nel momento propizio, ma altre volte male, troppo presto, con troppo dolore. L’umanesimo biblico lo sa molto bene, e per questo ha lottato molto contro i culti pagani dei popoli vicini che volevano fare della terra e della natura una divinità: la forza della terra ha sempre affascinato gli uomini che hanno cercato di comprarla con magia e sacrifici. E così, mentre cercavo, invano, di riprendere sonno, pensavo ai libri tremendi di Giobbe e di Qohelet, che si capiscono forse durante queste notti.



Quei libri ci dicono che nessun Dio, nemmeno quello vero, può controllare la terra, perché anche Lui, una volta che entra nella storia umana, è vittima della misteriosa libertà della sua creazione. Neanche Dio può spiegarci perché i bambini muoiono schiacciati dalle antiche pietre dei nostri paesi, e non può spiegarcelo perché non lo sa, perché se lo sapesse sarebbe un idolo mostruoso.


Dio, che oggi guarda la terra delle tre A (Arquata, Accumuli, Amatrice), può solo farsi le stesse nostre domande: può gridare, tacere, piangere insieme a noi. E magari ricordarci con le parole della Bibbia che tutto è vanità delle vanità: tutto è soffio, vento, nebbia, spreco, nulla, effimero. Vanità in ebraico si scrive Habel, la stessa parola di Abele, il fratello ucciso da Caino. 

Tutto è vanità, tutto è un infinito Abele: il mondo è pieno di vittime. Questo lo possiamo sapere. Lo sappiamo, lo dimentichiamo troppo spesso. Queste notti e questi giorni tremendi ce lo fanno ricordare.

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Luigino Bruni scrive sull´Avvenire.


Crediti Immagini

1. Amatrice, prima e dopo - www.si24.it
2. www.internazionale.com-md
3. Siccità Nord Est del Brasile - www.caninde.soares.com/fotojornalismo
4. Inondazine a Palmares - Nord Est del Brasile - www.noticias.uol.com.br
5. Cristo Redentore Illuminato - RJ (Brasile). Foto di Vladimir Platonew - Agência     Brasil.In: www.fotospublicas.com

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